Studiosi e premi Nobel invitano ad aggiornare la classificazione della vita. L’età non è solo un limite: ecco come trasformarla da problema in risorsa.
La speranza di vita è un segno di civiltà e un indicatore di sviluppo, ma da un po’ di tempo è anche un fattore di rischio. I portatori involontari di questo rischio appartengono alla categoria anziani, alias vecchi, vecchiacci, nonnetti, vegliardi, secondo una poco simpatica classificazione. Su di loro si fanno pesare i maggiori costi della sanità, la spesa pensionistica, persino la mancata crescita.
È una semplificazione sbagliata. Perché la vecchiaia, nonostante tutto, non ha il monopolio della debolezza o della cattiva salute, dicono i medici. Perché su 16 milioni di pensionati in Italia, 7,2 milioni hanno un assegno inferiore ai mille euro e il 17 per cento vive con meno di 500 euro, informa l’Istat. Perché la mancata crescita è dovuta alla bassa competitività e ad una popolazione attiva che invece di allargarsi si restringe continuamente, scrive l’economista Giulio Sapelli.
Per mettere la longevità «nel cassetto delle risorse e non dei problemi», sostiene Fabio Roversi Monaco, ex rettore dell’Università di Bologna, ideatore del festival della Scienza medica, «va cambiato un modo di pensare» troppo incline all’ageismo e alla rottamazione.
Bisogna aggiornare le età della vita. Si deve trasformare una questione prevalentemente assistenziale e sanitaria in una risorsa che può diventare fattore di ricchezza: la crescita si aiuta anche con i beni relazionali. In questo caso gli anni non sono un limite: possono essere un vantaggio.
L’età è solo un numero, intitola un saggio sulla vecchiaia il semiologo Marc Augè. Ma sconfina nell’eccesso. Senza esagerare, ci sarebbe invece una soglia da abbattere, per dare a milioni di persone un motivo in più per non sentirsi vecchi. È la soglia 65. Per convenzione si considerano anziani le persone di età superiore a una soglia fissa, per esempio i 65 anni. Tra gli ultrasessantacinquenni esistono profili eterogenei per stato di salute e condizioni di vita.
Sono state proposte varie misure dinamiche dell’invecchiamento di una popolazione. È stato detto che c’è un’età anagrafica e ce n’è una biologica. A metà del secolo scorso la speranza di vita residua a 65 anni era di 13 anni. A 65 anni si entrava così nel parametro «anziani».
Anche se dava fastidio sentirselo dire.
Oggi a 65 anni ogni uomo e ogni donna può dire «anziano sarà lei» a un incauto interlocutore rimasto fermo ai pregiudizi.
Perché negli ultimi cinquant’anni è cambiato tutto.
Oggi 13 anni sono l’attesa di vita di un uomo di 73 anni e di una donna di 75 anni. Se utilizzassimo l’attesa di vita residua di 13 anni, come criterio per definire la soglia di entrata nell’età avanzata, oggi in Italia 6,5 milioni di persone di età compresa fra 65 e 74 anni non verrebbero più considerati anziani.
Non è una rivoluzione lessicale Indica una trasformazione in corso: la soglia di transizione mobile si porta dietro un serie di effetti da non lasciare alla deriva. I dossier dell’Onu e il rapporto «An Aging World 2015» ci avvertono che per la prima volta nella storia dell’umanità la percentuale degli ultrasessantacinquenni supererà quella dei bambini di età inferiore ai cinque anni. Il punto d’incrocio è dietro l’angolo: avverrà prima del 2020.
In Italia, ci ha ricordato l’Istat, nel 2015 ci sono state 15 mila nascite in meno rispetto al 2014: il minimo storico da quando c’è lo Stato unitario.
Nel 2050 la percentuale degli ultrasessantacinquenni sarà più del doppio di quella dei bambini.
Così, fra poco ci saranno più nonni che nipoti. E questo è un guaio serio. Se il miglioramento delle condizioni di salute ha portato l’Italia al primato della longevità (dopo il Giappone) la mancanza di politiche a sostegno della donna che lavora incide sul calo delle nascite. Crescere un figlio ha un costo che molte giovani coppie, senza il sostegno della famiglia, non riescono a sostenere.
La retta di un asilo nido è come uno stipendio. Troppo alta. Fa pendant con le rette esose delle case di riposo, che si abbattono sempre sulla famiglia, quando la vecchiaia da conquista diventa un peso, a causa di malattie gravi o degenerative.
L’anzianità va rimessa in gioco senza scontri generazionali, sfruttando i vantaggi e limitandone i disagi. Le cifre e i grafici vanno interpretati cercando le condizioni per un riequilibrio, senza colpevolizzare chi si avvia ad entrare nella quinta età, quella degli ultranovantenni.
Cancellando l’aggettivo anziano per i sessantacinquenni si definisce un’area e si libera un’età. Non solo per chi è fisicamente in forma. Soprattutto per chi partecipa alla vita sociale, economica, culturale e civile del Paese. Ed è ancora pronto a fare la sua parte.
Da Corriere della sera del 25 maggio 2016