La ripresa leggere dell'economia non basta a sistemare i danni della crisi. L'indice di deprivazione aumenta e la disoccupazione cala lievemente ma non al Sud. L'Italia è uno dei Paesi più "vecchi" e l'Istat nel suo Rapporto 2017 divide la società in nove "famiglie" per decrivere la situazione. IL RAPPORTO
L’economia italiana va avanti piano. Troppo piano forse anche se negli ultimi anni ha registrato una leggera accelerazione rispetto al periodo iniziati con la crisi. E l’attuale fase espansiva è caratterizzata da una difficoltà di consolidamento, che si manifesta in una elevata volatilità dei principali indicatori congiunturali e in un recupero del settore manifatturiero, a fronte di una espansione molto contenuta dei servizi.
L’Istat ha pubblicato il suo rapporto annuale descrivendo un’Italia al rallentatore e comunque con una estrema selettività sociale.
Il Pil italiano in volume è cresciuto dello 0,9% nel 2016, consolidando il processo di ripresa iniziato l’anno precedente. La domanda interna ha sostenuto la crescita con un apporto positivo (+1,4 punti percentuali) controbilanciando il contributo negativo delle scorte e della domanda estera netta (rispettivamente -0,5 e -0,1 punti percentuali).
I consumi finali nazionali hanno proseguito l’espansione (+1,2% da +1,0% del 2015) sostenuti dall’incremento del reddito disponibile in termini reali. Quest’ultimo ha beneficiato della crescita dei redditi nominali e della stabilità dei prezzi al consumo (la variazione nel 2016 è stata sostanzialmente nulla).
Risale invece l’indicatore di grave deprivazione materiale (11,9% da 11,5% del 2015). Il disagio economico si conferma elevato per le famiglie in cui la persona di riferimento è in cerca di lavoro, in altra condizione non professionale (a esclusione dei ritirati dal lavoro), con occupazione part time. Particolarmente critica la condizione dei genitori soli, soprattutto se hanno figli minori, e quella dei residenti nel Mezzogiorno.
D’altra parte il tasso di disoccupazione è diminuito solo lievemente a livello nazionale (11,7% da 11,9% del 2015) ma è aumentato di due decimi nelle regioni meridionali e insulari (19,6%) e le retribuzioni contrattuali per dipendente sono aumentate dello 0,6% nel 2016, in ulteriore rallentamento rispetto all’anno precedente (+1,2%). Le retribuzioni lorde di fatto per unità di lavoro equivalenti a tempo pieno hanno invece registrato una crescita dello 0,7%, in lieve ripresa rispetto al 2015.
L’inflazione è ancora essenzialmente trainata dai movimenti dei prezzi di energetici e alimentari; anche l’evoluzione della core inflation (al netto di beni energetici e alimentari non lavorati) indica in aprile una forte risalita (+1,2% da +0,7% di marzo).
“In questo quadro – commenta l’Istat - nonostante l’impennata di aprile, l’andamento della componente meno volatile dell’inflazione è destinata a rimanere lenta nei prossimi mesi, almeno fino a quando gli aumenti dei prezzi nel settore energetico non eserciteranno “effetti di secondo round” sulle diverse tipologie di beni o si assisterà a un deciso consolidamento della domanda per consumi”.
Nel Rapporto, è ribadito che l’invecchiamento della popolazione è l’aspetto demografico che contraddistingue il Paese nel contesto internazionale. La natalità continua a diminuire: il minimo osservato nel 2015 per le nascite risulta superato nel 2016 dal nuovo record nella storia dell’Italia unita (474 mila).
I decessi sono 608 mila, un livello elevato ma in linea con la tendenza all’aumento dovuta all’invecchiamento della popolazione. Il saldo naturale registra nel 2016 un valore negativo (-134 mila), il secondo maggior calo di sempre, dopo quello del 2015. Il saldo migratorio con l’estero si mantiene a un livello analogo a quello dell’anno precedente, anche se con un maggior numero di ingressi e di uscite. La dinamica naturale negativa determina il calo demografico. A partire dal 2015, la popolazione residente si riduce: di 130 mila persone quell’anno, di 86 mila nel 2016. Secondo le stime al 1°gennaio 2017, la popolazione residente scende a 60,6 milioni.
Il crescente invecchiamento della popolazione pone una delle sfide globali più complesse dal punto di vista sociale, economico e culturale. Con specifico riferimento al tema della salute, l’aumento della sopravvivenza genera l’incremento costante di una fascia di popolazione più esposta a problemi di salute di natura cronico-degenerativa. Tutto ciò pone, e porrà sempre di più in futuro, i sistemi sanitari dei paesi avanzati sotto forte pressione per l’aumento della domanda di cure, con conseguenti problemi di sostenibilità finanziaria.
In questo contesto, anche a livello internazionale, si sottolinea come la sostenibilità delle attuali condizioni di salute della popolazione necessiti di uno sforzo comune per ottimizzare risorse ed energie, per prevenire le malattie croniche, per preservare il migliore stato di salute La strategia italiana si concentra su fattori di rischio comportamentali (prevenzione primaria), enfatizza il ruolo centrale del paziente nella gestione della propria salute, promuove interventi di protezione mediante screening (prevenzione secondaria), assicura la qualità dell’assistenza della persona con malattia cronica.
E l’Istat nel suo rapporto di quest’anno ha identificato nove gruppi sociali per descrivere la società italiana.
Due dei nove gruppi possono definirsi a reddito medio (giovani blue-collar e famiglie degli operai in pensione), quattro a basso reddito (famiglie a basso reddito con stranieri, famiglie a basso reddito di soli italiani, famiglie tradizionali della provincia e anziane sole e giovani disoccupati) e tre più benestanti (famiglie di impiegati, pensionati d’argento e classe dirigente).
Le famiglie a basso reddito con stranieri sono quelle in cui è presente almeno una persona con cittadinanza non italiana. Si tratta di quasi 2 milioni di famiglie (il 7,1%) per un totale di 4,7 milioni di individui (il 7,8%).
Le famiglie a basso reddito di soli italiani sono poche più delle famiglie a basso reddito con stranieri in termini di numero (sfiorano i 2 milioni, il 7,5%) ma – poiché sono famiglie numerose, mediamente di 4,3 componenti, e coppie con figli in più di nove casi su dieci – ne fanno parte oltre 8 milioni di persone (il 13,6%). Risiedono con maggiore frequenza nel Mezzogiorno.
Le famiglie tradizionali della provincia sono il gruppo meno consistente in termini tanto di famiglie quanto di individui (quasi 850 mila famiglie e 3,6 milioni di persone, pari rispettivamente al 3,3 e al 6,0% del totale).
Le famiglie di operai in pensione è il gruppo più corposo in termini di famiglie (6 milioni, il 22,7%) ma non di persone (10,5 milioni, il 17,3%). La persona di riferimento ha in media 72 anni e possiede al massimo la licenza media inferiore. Sono famiglie di piccola dimensione (in media meno di due componenti): nel 76,8% dei casi si tratta di persone sole o coppie senza figli in casa (nidi vuoti). Il gruppo è composto in grande prevalenza (in oltre l’80% dei casi) da famiglie in cui il principale percettore è ritirato dal lavoro.
Le famiglie del gruppo denominato pensioni d’argento sono 2,4 milioni (il 9,3% del totale delle famiglie) e raccolgono oltre 5 milioni di persone (l’8,6%). È un gruppo a reddito elevato, in cui il principale percettore è in più dei due terzi dei casi ritirato dal lavoro; quando invece è occupato, si tratta di un dirigente oppure di un imprenditore o libero professionista in proporzioni grosso modo simili. La persona di riferimento ha un’età media di 64,6 anni e – come accade per le famiglie di impiegati – è sempre in possesso del titolo di scuola media superiore.
Di dimensione un po’ più contenuta di quella delle famiglie di impiegati (2,2 componenti in media), sono in un terzo dei casi coppie senza figli: vista l’età della persona di riferimento, è verosimile si tratti di famiglie in cui i figli sono usciti di casa (nidi vuoti).
Il gruppo “classe dirigente” include poco meno di 2 milioni di famiglie (7,2%), per un totale di 4,6 milioni di persone (7,5%). Sono le famiglie con il maggiore reddito equivalente, con un vantaggio di quasi il 70% rispetto alla media. Il principale percettore di reddito – che ha un’età media di 56,2 anni – dispone sempre di un titolo universitario: in un quarto dei casi detiene un diploma post-laurea, nei restanti tre quarti la laurea. Composte in media da 2,5 componenti, sono famiglie che in oltre quattro casi su dieci appartengono alla tipologia delle coppie con figli conviventi.
I giovani blue-collar includono poco meno di 3 milioni di famiglie (11,3% di quelle residenti in Italia), pari a 6,2 milioni di persone (10,2% della popolazione). Il principale percettore di reddito ha in media 45 anni e nel 90% dei casi ha conseguito il diploma di scuola media inferiore o superiore. Le famiglie hanno in media 2,1 componenti; il 35,6% sono coppie senza figli. Tre persone di riferimento su quattro hanno un contratto a tempo indeterminato e sono inquadrate come operaio o addetto a operazioni manuali.
Le anziane sole e i giovani disoccupati sono un insieme di 3,5 milioni di famiglie (il 13,8%) e 5,4 milioni di persone (l’8,9). Nel 60% dei casi si tratta di persone sole, come testimonia il numero medio di componenti molto basso (1,5 membri per famiglia). È un gruppo in cui sono presenti, oltre a famiglie in cui la persona di riferimento è inattiva (quasi il 90% dei casi), una minoranza di famiglie in cui la persona di riferimento è disoccupata. L’età media della persona di riferimento è 65,6 anni e il titolo di studio basso (più del 40% possiede la licenza elementare e meno del 30% quella media).
Per cercare di analizzare i comportamenti a scopo di prevenzione di queste nove famiglie, è stata condotta un’analisi a livello italiano prendendo innanzitutto in considerazione la popolazione di età compresa tra i 15 e i 64 anni non affetta da malattie cardiovascolari che ha svolto il controllo dei livelli di colesterolo e della pressione arteriosa, e quella non affetta da diabete che ha controllato il livello di glicemia. Nel complesso, circa il 47% della popolazione ha controllato la pressione negli ultimi 12 mesi, il 39,9% il colesterolo e il 42,1% la glicemia.
I valori sono differenziati tra i diversi gruppi sociali e vedono per tutti e tre i tipi di esame le famiglie a basso reddito con stranieri all’ultimo posto per frequenza di controlli (39,5 per cento per la pressione e circa 31% per colesterolo e glicemia). All’estremo opposto, la classe dirigente si colloca al primo posto per i controlli di colesterolo e glicemia (46,9 e 50,2 per cento rispettivamente) e i giovani blue-collar per quello della pressione (54,0%).
Un’analisi che tiene contestualmente conto dell’appartenenza ai diversi gruppi sociali e di altre caratteristiche individuali e del luogo di residenza mette meglio in luce i diversi comportamenti in termini di prevenzione. I risultati mostrano come, a parità di altre caratteristiche, le donne abbiano una maggiore propensione a svolgere controlli, così come i residenti nel Nord e nel Centro in confronto a chi risiede nel Mezzogiorno.
Prendendo come riferimento il gruppo delle famiglie a basso reddito di italiani, la propensione a svolgere controlli di prevenzione è inferiore per le famiglie a basso reddito con stranieri.
È invece più elevata per la classe dirigente, i giovani blue-collar, le famiglie di impiegati e pensioni d’argento (per i controlli del colesterolo e della glicemia).
Per la prevenzione dei tumori femminili, i protocolli sanitari di screening attuali consigliano di eseguire i controlli del Pap-test e della mammografia con una cadenza raccomandata (3 anni per il Pap-test e 2 per la mammografia), considerando specifiche fasce di età, ovvero 25-64 anni per il Pap-test e 50-69 anni per la mammografia. La quota di donne in età raccomandata che ha eseguito un Pap-test negli ultimi tre anni risulta sotto la media nei gruppi delle famiglie a basso reddito e nel gruppo anziane sole e giovani disoccupati; mentre risulta maggiore per gli impiegati e la classe dirigente. Per la mammografia sono svantaggiati gli stessi gruppi visti per il Pap-test, cui si aggiungono le famiglie tradizionali della provincia.
Risultano più virtuosi i comportamenti dei gruppi degli impiegati e la classe dirigente.
La percezione dello stato di salute mostra nel tempo un lieve miglioramento al netto degli effetti dell’invecchiamento: si dichiara in buone condizioni il 67,7 della popolazione nel 2016 (rispetto al 64,8 del 2009).
Sulle possibilità di accesso ai servizi sanitari da parte dei cittadini ha influito, tra l’altro, il non aver recuperato i livelli di reddito conseguiti prima della recessione. La quota di persone che ha rinunciato a una visita specialistica negli ultimi 12 mesi perché troppo costosa è infatti cresciuta tra il 2008 e il 2015 dal 4,0 al 6,5% della popolazione e il fenomeno è più accentuato nel Mezzogiorno, sia come livello di partenza sia come incremento (dal 6,6 al 10,1%). L’aumento delle rinunce per ragioni economiche ha prodotto, come prevedibile, un impatto maggiore sui segmenti di popolazione più poveri: la quota delle rinunce passa dall’8,7% al 14,2 per le persone del primo quinto di reddito, e dallo 0,9 all’1,1 per i più ricchi.
Tra i gruppi sociali si osservano importanti diseguaglianze nelle condizioni di salute. Il gruppo sociale meno svantaggiato è costituito dalle persone che vivono nelle famiglie della classe dirigente, con la quota più elevata di persone che si dichiarano in buone condizioni di salute (75,6%), seguito dai gruppi dei giovani blue-collar, dalle famiglie di impiegati e dalle pensioni d’argento (rispettivamente, 71,7, 71,2 e 71,0%). Gli altri gruppi, invece, sono più svantaggiati, soprattutto nel caso delle persone che vivono in famiglie di anziane sole e giovani disoccupati (-7,2 punti percentuali rispetto alla media); si tratta, del resto, di un gruppo fortemente caratterizzato rispetto agli altri dalla presenza di donne anziane, che in generale riferiscono una condizione di salute peggiore, spesso associata alla prevalenza di patologie non letali ma invalidanti (tipicamente artrosi e artriti). Per gli altri gruppi la differenza rispetto alla media non supera i 4 punti percentuali.
Questo quadro viene in gran parte confermato prendendo in considerazione altri indicatori sullo stato di salute – quali la presenza di cronicità e comorbilità (presenza di più patologie croniche). Ad eccezione del gruppo delle famiglie a basso reddito con stranieri (con una prevalenza del 34,3%) in cui si osserva l’effetto del “migrante sano”, gli altri gruppi presentano tassi superiori al 40,0% per la cronicità, e anche in questo caso, si mettono in luce prevalenze inferiori alla media per la classe dirigente (40,3 contro una media del 42,8%). La comorbilità segue lo stesso andamento, con il gruppo delle famiglie a basso reddito con stranieri al 17,1% e quello della classe dirigente al 18,2%, mentre il gruppo delle famiglie di anziane sole e giovani disoccupati (dove la comorbilità raggiunge il 27,8%) rappresenta nuovamente il segmento di popolazione più critico.
La quota di persone in buona salute è più elevata nelle regioni settentrionali (Nord 71,0%, Centro 68,2% e Mezzogiorno 65,7%), ma con alcune specificità rispetto ai gruppi. Il gruppo della classe dirigente conferma il suo ottimo risultato in tutte le ripartizioni, anche se nel Centro è superato da quello delle pensioni d’argento. All’estremo opposto, le anziane sole e giovani disoccupati sono il gruppo con le peggiori condizioni di salute in tutte le macroaree. Le famiglie tradizionali della provincia e quelle di operai in pensione mostrano condizioni di salute generalmente meno buone nel Nord e nel Mezzogiorno e, per contro, le famiglie di impiegati e i giovani blue-collar sono in condizioni relativamente migliori nelle medesime ripartizioni. Il Centro invece si caratterizza per la quota più bassa di famiglie a basso reddito con stranieri che dichiarano di sentirsi bene e molto bene (62,9%). Inoltre, le differenze sociali rispetto al dato medio sono più accentuate nel Mezzogiorno piuttosto che al Nord.
Anche considerando l’indicatore di comorbilità, il Mezzogiorno risulta svantaggiato rispetto al Nord (23,2% e 20,8 rispettivamente), ma in linea con il Centro (22,7%). Le differenze tra gruppi sociali all’interno delle ripartizioni rispecchiano quanto detto con riferimento all’indicatore generale di salute.
Tra i fattori che determinano le patologie croniche, alcuni sono di tipo genetico, e quindi non modificabili; altri sono comportamentali, come ad esempio il tabagismo, il consumo dannoso di bevande alcoliche, l’eccesso di peso e l’inattività fisica, e dunque modificabili attraverso la promozione di stili di vita salutari. Da circa un decennio è stata avviata in Italia la strategia europea “Guadagnare salute”,22 per promuovere una sana alimentazione, la pratica regolare di attività fisica, il controllo dell’eccesso di peso, la lotta al fumo e al consumo dannoso di alcol, attribuendo un ruolo fondamentale al lavoro interistituzionale per la sensibilizzazione dei cittadini a migliorare gli stili di vita.
Il 37,3% della popolazione adulta cumula più di un comportamento non salutare, ampliando quindi il rischio di insorgenza di malattie croniche associate ai diversi comportamenti. Sono soprattutto i componenti delle famiglie di operai in pensione (47,1%), caratterizzate da reddito relativamente basso e basso titolo di studio della persona di riferimento, a cumulare più comportamenti non salutari. All’opposto, i membri delle famiglie della classe dirigente mostrano una minore propensione a tenere comportamenti a rischio per la salute, con una quota del 22,6%.
In generale, i comportamenti a rischio per la salute sono molto legati, positivamente, alla condizione economica e al livello di istruzione e, negativamente, all’età; caratteristiche, peraltro, a loro volta interconnesse. Tuttavia emergono differenziazioni a seconda della tipologia di comportamento a rischio, dovute anche ad altri fattori, come quelli religiosi.
Da QS