Il workshop, organizzato da Residenze Anni Azzurri durante il Forum della Non Autosufficienza a Bologna il 22 e 23 novembre, da voce ai diversi punti di vista dei professionisti che hanno colaboratao la volume-ricerca «Il socio-sanitario è donna», pubblicato da Maggioli editore, a cura di Matteo Tessarolo. Anticipiamo qui una parte del capitolo «Il ruolo della donna nella cura e assistenza: le implicazioni di genere nel management delle strutture» scritto da Maria Cristina Bombelli Comprendere le dinamiche delle differenze di genere all’interno di un’organizzazione è molto utile perché fornisce informazioni importanti circa la cultura prevalente e le logiche di inclusione / esclusione di alcuni segmenti della popolazione lavorativa. D’altro canto, la stessa lettura di genere, può essere considerata fuorviante. Di per sé, infatti, l’appartenenza al genere non può essere una chiave di lettura univoca delle dinamiche che si possono osservare, siano esse fisiologiche, che di natura patologica e, come tali, necessarie di un intervento correttivo. Dal punto di vista dell’identità soggettiva il genere è una delle attribuzioni che contribuiscono a formare la modalità con cui le persone si relazionano con il mondo. Altre caratteristiche individuali - quali la personalità, piuttosto che l’appartenenza ad una certa cultura - o professionali - come il background scolastico o le specializzazioni e i percorsi successivi - possono essere maggiormente significativi nel creare l’immagine di sé e ne presentarla agli altri. Il genere, dunque, non determina di automaticamente comportamenti professionali omogenei o modalità analoghe, se non su alcuni aspetti specifici, come vedremo in seguito. Diventa invece un elemento coerente nello stereotipo che una certa cultura mette in atto, e nelle azioni organizzative conseguenti. In sintesi il genere non è un elemento che discrimina in modo rigido le identità individuali, ma può invece essere un elemento di discriminazione in una determinata cultura sia sociale che organizzativa. Questa premessa fa capire il disagio di molte donne nel vedersi attribuite delle caratteristiche peculiari, una attribuzione che potrebbe diventare una motivazione di discriminazione. Per fare un esempio una attribuzione generalizzante classica è: le donne dopo la maternità non sono più motivate al lavoro come prima e dirigeranno le loro energie maggiormente verso il contesto familiare. Argomentazione spesso usata per non proporre sviluppi di carriera o sfide professionali crescenti. Spesso quindi le donne si trovano nel dilemma di non riconoscersi nel gruppo femminile per quanto riguarda molti aspetti della vita professionale, ma per poi ritrovarcisi nel rispecchiamento che viene prodotto dalla cultura organizzativa. Peraltro si ritiene l’ottica di genere necessaria in un contesto iper femminilizzato come quello delle residenze sanitarie assistenziali , proprio per comprendere e decodificare alcune dinamiche organizzative e relazionali che – se affrontate – possono migliorare sia l’efficienza che l’efficacia dell’agire organizzato e, di conseguenza, aumentare anche il benessere organizzativo. Il contesto che si è scelto di affrontare è quello dell’assistenza nella residenze sanitarie assistenziali, un mondo differenziato nel territorio nazionale in virtù della regionalizzazione delle direttive sanitarie, ma che consente di riflettere su alcune tendenze che hanno un certo grado di omogeneità. Il primo dato da sottolineare è, anche ad una lettura immediata della composizione, che l’assistenza è femmina. Ci troviamo di fronte ad un universo dove la prevalenza femminile è ampia, sia tra gli ospiti delle strutture che tra gli operatori, ma con alcune differenze che è opportuno mettere in luce. Un mondo al femminile Le residenze sono un mondo peculiare, segnato dalla prevalenza di donne in tutti gli ambiti l’utenza, le famiglie che spesso sono i reali committenti del servizio e gli operatori. Un universo in cui si intrecciano tendenze sociali e demografiche, storie personali e professionali, eredità culturali e innovazione. Un gomitolo che è necessario dipanare per comprendere i “fili rossi” che attraversano la società e le diverse organizzazioni e che ci pongono di fronte alle criticità che è necessario affrontare, ai vari livelli. Il fenomeno dell’aumento dell’attesa di vita non può stupire: la storia dimostra come il genere umano è andato via via spostando il confine della vita, con andamenti ciclici dovuti a situazioni particolari, quali epidemie o guerre, ma con una tendenza costante all’aumento. Nello scorcio temporale attuale tutto il mondo gode di questa progressione con una accentuazione significativa per l’occidente avanzato che, forte di una ricchezza diffusa, garantisce sempre più la possibilità di sopravvivenza e una certa dose di benessere. In questo positivo contesto l’Italia si presenta con alcuni primati: da un lato l’invecchiamento, dall’altro la denatalità. L’impressione complessiva, osservando gli attori politici, sociali ed organizzativi che si occupano della popolazione anziana è che questa rivoluzione non sia stata compiutamente compresa nelle potenzialità di impatto sui sistemi di welfare e, di conseguenza, sulla vita concreta degli individui. E’ un tema che ricorre nelle dichiarazioni, che si condivide superficialmente, ma le cui conseguenze non sono ancora sufficientemente delineate e, di conseguenza, affrontate in un’ottica progettuale. Asimmetria di cura La tendenza all’invecchiamento ha prodotto e sta producendo una conversione sostanziale delle residenze sanitarie assistenziali da strutture di accoglienza a luoghi di cura. Il combinato disposto, da un lato dell’invecchiamento, dall’altro del costo che viene richiesto alle famiglie per il servizio, porta a posticipare in modo progressivo l’età media dell’ingresso nelle strutture favorendo l’ingresso di persone sempre meno autosufficienti e bisognose di assistenza sanitaria. Un elemento questo che produce un cambiamento sia nella definizione degli obiettivi strategici e più di breve periodo di ogni struttura – che spesso ha una situazione territoriale specifica, collegata a tendenze locali relativamente alla quantità delle richieste, ma anche alla qualità dell’assistenza – sia al mix professionale necessario. Dal punto di vista della gestione, quindi, è necessario uscire da una logica si strutture “fotocopia” per sviluppare una capacità di vision locale, ancorata ad esigenze che vanno in primo luogo reperite e quindi ascoltate. Una seconda considerazione riguarda il segnale che proviene dalla composizione di genere degli ospiti nelle strutture di assistenza agli anziani. Nel contributo di Matteo Tessarollo nel primo capitolo di Il socio-sanitario è donna (Maggioli Editore) si mette in luce come le donne, nel luglio 2016, costituissero il 70,98% nelle residenze Anni Azzurri. Un dato con ogni probabilità abbastanza rappresentativo della tendenza alla femminilizzazione degli ospiti che va ben oltre il dato demografico. La netta prevalenza femminile, quindi, non è giustificata dal divario di età. E’ necessario di conseguenza leggere gli aspetti qualitativi esistenti dietro i numeri, ed una interpretazione possibile riguarda il fatto che le donne – che vivono di più – sono quelle che si prendono cura dei mariti e più in generale dei componenti di sesso maschile della famiglia, consentendo loro di concludere la loro vita tra le pareti domestiche. Quando restano sole, o per scelta personale o per pressione dei famigliari giovani, si trasferiscono nelle strutture. Un dato che conferma la storica suddivisione dei compiti al maschile e al femminile, ma che deve essere visto in tendenza. Se si osservano altri ambiti di cura, ad esempio quella dei figli, si sta assistendo ad una progressiva fungibilità delle mamme e dei papà. Come sottolinea una cospicua letteratura sia scientifica che divulgativa, gli uomini si stanno sempre più impegnando nella cura dei figli, non solo per necessità, ma anche per scelta. Il figlio, spesso unico, diventa oggetto di un’attenzione sempre più paritetica che si coniuga con l’attenzione alla vita privata delle giovani generazioni, soprattutto della componente maschile, che rifiuta il lavoro come unico elemento di identificazione personale. Resta da vedere se questa tendenza alla modifica dei ruoli tradizionali si estenderà anche negli altri aspetti della cura nel ciclo di vita, arrivando al carico sui genitori anziani, considerando anche che la cura di un bambino porta con sé aspetti piacevoli e una visione del futuro, mentre l’assistenza agli anziani ha ancora oggi degli oggettivi elementi di fatica, sia fisica che – soprattutto – psicologica. Oggi, quello che appare evidente non solo nella composizione degli ospiti, ma soprattutto nelle relazioni con i caregivers è che questi compiti vengono lasciati pressoché completamente sulle spalle femminili. Un’ultima considerazione relativamente agli impatti della rivoluzione demografica: il progressivo invecchiamento delle persone bisognose di cura porta con sé che i famigliari deputati a seguire queste persone sono anch’esse molto anziane. Ricordando come i temi che stiamo trattando hanno poi una incidenza concreta sulla vita delle persone, è necessario mettere in luce come, nel percorso della vita femminile, in virtù della rivoluzione demografica, nuove aree di criticità che hanno ripercussioni complessive nel ciclo di vita. Un momento critico che diventa sempre più un fardello pesante nella vita di tutti, ma con maggiore impatto in quella delle donne è il “diventare genitori dei propri genitori”. E’ il momento dell’inversione della cura, in cui l’identità ancorata all’”essere figli” deve essere superata perché il genitore biologico diventa un’altra persona. Non sempre questo accade, nel senso che l’invecchiamento può anche non produrre una inversione dei ruoli, ma è rilevabile in moltissime situazioni di demenza e di patologie correlate. Anche altre situazioni posso rivelarsi molto critiche, ad esempio la depressione associata all’invecchiamento e la mancanza della voglia di vivere, che portano a relazioni complicate e che domandano moltissimo, in termini di impegno psicologico, di allocazione di tempo e di risorse economiche. Siccome l’allungamento della vita ha prodotto necessariamente un conseguente aumento della vita lavorativa, il momento del “diventare genitori dei propri genitori” accade durante la vita attiva. Le donne che lavorano quindi, si trovano a dover affrontare un altro momento di grande complessità nella conciliazione dei tempi e delle responsabilità, oltre quello della maternità e della cura dei bambini piccoli. Un momento complesso di ben altra natura rispetto a quello precedente. L’assistenza è femmina: le “pareti d’acciaio” e il “soffitto di vetro” Nell’analisi della composizione della forza lavoro per genere ci sono due fenomeni che appaiono macroscopici e che devono essere affrontati: le pareti d’acciaio e il soffitto di vetro. Entrambe le metafore stanno ad indicare delle linee di separazione nei contesti organizzativi che sono molto evidenti. Le “pareti di acciaio”, termine non condiviso dalla letteratura ma proposto per questo lavoro, sono quelle della cosiddetta “segregazione orizzontale” ovvero le mansioni / posizioni organizzative che hanno una fortissima connotazione di genere. Gli ingegneri, ad esempio sono prevalentemente maschi, mentre le insegnanti sono quasi tutte femmine. Il “soffitto di vetro” è invece la metafora che esprime la segregazione verticale, ovvero le posizioni gerarchiche connotate da un genere piuttosto che da un altro. In primo luogo riteniamo opportuno offrire una riflessione sulla scolarità, quell’insieme di percorsi che insistono alle porte delle residenze sanitarie assistenziali e delle organizzazioni lavorative in generale, e che definiscono il bacino di offerta delle persone verso i contesti lavorativi. Le donne, da molti anni hanno superato i maschi come scolarità – ovvero molte più donne studiano – e anche, in termini qualitativi, con votazioni mediamente superiore. E’ interessante notare come, a fronte di una situazioni decisamente favorevole, poi in termini aggregati i giovani laureati maschi sono occupati per il 57,4% mentre le donne si attestano sul 50%. In questo scenario complessivo, di scolarità elevata e di grande cautela nel costruire una famiglia, la segregazione orizzontale – le “pareti d’acciaio” – è un elemento rilevante. Inizia dalla scelta dei percorsi formativi, con scelte che appaiono fortemente segnate dall’appartenenza di genere, anche se con alcuni spostamenti nel tempo. La macro segmentazione scientifica e umanistico relazionale rimane fortemente connotata. Molti sono gli osservatori e gli attori sociali che in questi anni hanno premuto per spingere le donne verso facoltà più maschili, come si può vedere dallo spostamento dal 18% del 2004 al 22 % del 2013 nelle iscrizioni femminili ad ingegneria. Sempre meno uomini iscritti alle università umanistiche Ma quello che appare davvero preoccupante, sia in termini sociali che organizzativi, è il 7% delle iscrizioni maschili all’insegnamento, il 19 % al linguistico e il 22 % al gruppo psicologico. Questo dato non è soggetto ad allarme sociale tanto quanto la carenza di donne nelle materie scientifiche, mentre di fatto produce delle pareti di acciaio in un intero settore, quello educativo, che è diventato un regno del femminile, con gravi ripercussioni sui discenti che, nel periodo di formazione, si trovano a confrontarsi con un unico modello di genere. Tanto si è discusso sulle cause di questo segregazione, se esse siano di natura culturale o biologica. Vogliamo qui, come in altri contesti, cercare di superare questa dicotomia che, in una visione sistemica e olistica delle persone non ha molto senso. Esistono delle dimensioni fondamentali dell’identità individuale che si configurano come attrattori di scelte di percorsi professionali. Il lavoro di cura, anche in donne che vivono e lavorano in contesti tecnologici e di potere, è spesso una evocazione fondamentale, che attrae in modo irresistibile. Un altro elemento che coinvolge fortemente le donne e le spinge verso alcune scelte è la dimensione della responsabilità sociali, che viene individuata some possibile solo in alcuni contesti e non in altri. In realtà, come dimostrano le recenti crisi economiche, forse c’è più bisogno di responsabilità sociale nella finanza che nell’assistenza, ma questa lettura non è di immediata condivisione. La giustificazione dell’assenza maschile dall’educazione non può essere limitata alla scarsa appetibilità delle retribuzioni, come spesso viene sottolineato. Anche molti altri ambiti lavorativi sono poco attrattivi, eppure non hanno una percentuale così bassa di uomini interessati. Aprendo uno spaccato nell’ambito sanitario possiamo mettere a fuoco la composizione dei medici e degli infermieri. Negli ultimi dieci anni, dal 2000 al 2010, il numero delle specializzate è passato da 73.871 a 82.875, praticamente 9 mila in più. Nelle specializzazioni prevale pediatria e ginecologia, poche ancora si indirizzano verso oncologia e ortopedia. Chirurgia ha aumentato la composizione femminile del 15%. Per introdurre il tema che affronteremo successivamente del “soffitto di vetro”. È poi interessante notare come su 106 Ordini dei medici però solo 2 hanno come presidente una donna: quello della provincia di Gorizia e quello della provincia di Fermo. Dati Fnomceo (Federazione degli Ordini dei medici e degli odontoiatri) La professione di infermiere rappresenta un’opportunità lavorativa sempre più attraente per gli uomini, che ormai costituiscono quasi il 28% dei nuovi iscritti (erano solo il 22,3% nel 2007). Dal generale al particolare. Per analizzare i dati prendiamo come esempio il personale delle residenze Anni Azzurri, un campione molto ampio che ci consente di leggere alcune tendenze generali (non esistono dati complessivi del settore). Gli animatori in sono complessivamente 68, di cui 61 donne (89%); assistenti sociali 14, tutte donne; più equilibrata la composizione dei fisioterapisti (65 donne e 48 uomini) e dei medici (92 donne e 72 uomini). L’universo infermieristico risulta composto da 260 donne su 333 posizioni organizzative per un totale dell’81%. Il personale socio assistenziale si attesta su una femminilizzazione dell’84%. Unica posizione con una presenza maschile rilevante, non sorprendentemente, è quella di direzione di struttura che conta 19 donne e 16 uomini. Certo la maggioranza rimane femminile, ma di misura, mettendo in evidenza anche in un contesto generalmente composto da donne, che il potere è questione difficile. In conclusione lo spaccato delle realtà socio sanitarie condensa in modo interessante una serie di problematiche sociali, tendenze demografiche, segmentazione degli studi tra uomini e donne, carriere, che è assolutamente peculiare. Dal punto di vista sociale vengono alla luce temi che riguardano le donne, che non solo invecchiano più degli uomini, ma restando a casa nel ruolo di accudimento li accompagnano alla morte, prendendo poi la strada delle residenze. Un fenomeno che riconosce negli aspetti di cura una peculiarità tutta femminile che ritorna nel personale, estremamente femminilizzato alla base, ma ancora maschile ai vertici. Resta il nodo se questa “cura” è davvero un portato di un’attitudine profonda o, ancora una volta, un elemento di segregazione in transizione. Una risposta probabilmente impossibile, ma ci richiederà attenzione e impegno sia a livello sociale che organizzativo.
Dal punto di vista qualitativo la professione medica sembra renda più difficile per le donne conciliare professione e famiglia, infatti il 30% di esse sono single o separate, contro il 10% dei colleghi uomini. Inoltre il 30% delle donne non ha figli e il 20% ne ha uno solo; mentre gli uomini senza figli sono solo il 13% e il 16% con il figlio unico.