Sono il 21% degli italiani. Ma quel limite anagrafico descrive una condizione reale?
Ma a 65 anni, in un 2017 in cui l’aspettativa di vita per un uomo italiano supera di poco gli 80 anni e per le donne raggiunge quota 85, ci si può ancora definire «anziani»? Si può veramente chiudere nel recinto dei «quasi vecchi» chi ha superato la prima metà del settimo decennio della propria esistenza? La domanda non è astratta, anzi. Proprio lunedì il «Giorno-Quotidiano Nazionale» ha dato ampio risalto alla notizia dell’avanzamento dell’iter del disegno di legge antitruffe ai danni della terza età, primo firmatario e relatore della legge il deputato David Ermini del Pd.
Il limite anagrafico
E fin qui tutto bene, si prevede l’arresto immediato per chi si introduce nella casa di un anziano fingendosi un impiegato di una società elettrica, per esempio, con una reclusione da uno a cinque anni. Nel testo si parla esplicitamente di «over 65», attribuendo quindi una identità da «anziano» a chi si ritrova sulle spalle quella età. La domanda è lecita: quel limite anagrafico descrive una condizione reale? Nel suo ultimo libro (La curiosità non invecchia/ Elogio della quarta età, appena uscito da Mondadori) lo psicoanalista Massimo Ammaniti ricorda che il numero degli over 65 «è in continuo aumento, e attualmente rappresenta il 21% dell’intera popolazione italiana, 3 punti percentuali in più della media europea». Dunque una fetta sostanziosissima del nostro panorama sociale.
La vecchiaia
L’idea di vecchiaia è radicalmente cambiata col secondo ‘900. Come ha ricordato recentemente in un suo saggio lo scrittore e psicogerontologo Jérome Pellissier, nel XVI secolo la vecchiaia cominciava (nel giudizio collettivo) a trent’anni, nel XVII a quarant’anni, nel 1950 a più di sessanta, a fine Novecento a più di sessantacinque. E oggi, con una medicina preventiva che ha compiuto passi da gigante, si può trattare un sessantacinquenne come un individuo incapace di difendersi da un falso tecnico del gas o da un sedicente ispettore delle tasse? Ancora una cifra: nel 2010, la seconda relazione sociale dell’assessorato alle Politiche sociali del Comune di Milano prevedeva che nel 2020 (dunque: dopodomani) un milanese su quattro avrà più di 65 anni.
«Tarda adultità»
In questo mondo in grigio, numerosi sociologi concordano nel definire oggi la fascia 65-74 anni ormai come «tarda adultità» o al massimo «prima vecchiaia». Un anticipo di ciò che accadrà dai 75 anni in poi, ovvero (stavolta sì) la «vecchiaia». Le cose cambiano rapidamente: appena nel 1963 Marcello Marchesi canticchiava sul Primo Canale Rai «Che bella età/la mezza età», e si riferiva a un cinquantenne. Naturalmente tutto dipende dalla percezione del singolo individuo, da ciò che avverte sul proprio corpo e nella propria testa. E spesso si impone una decisione. Prendiamo le facilitazioni. In quasi tutte le città italiane chi ha più di 60-65 anni viaggia sui mezzi pubblici a prezzi scontati dal 20 al 50%. Tariffe agevolate anche sui treni, sia Italo che Trenitalia, e così per chi vola Alitalia. Oppure al cinema. Ma non tutti sono disposti a «dichiararsi», un po’ per vanità e un po’ perché nella fascia 65-75 anni c’è chi, nonostante l’uscita dal lavoro attivo, continua a lavorare, a essere inserito in un ciclo attivo e impegnato. E capita anche, nei rari casi in cui un giovane si alza per cedere il posto su un bus affollato, che un/una 65enne ringrazi e rifiuti, tra l’ironico e l’irritato.
Quarta età
Proprio per questa ragione Ammaniti, nel suo libro parla, a partire dal titolo, di «quarta età», ovvero dagli 80 anni in poi. E quindi si impone una personalissima decisione psicologica, a chi ha varcato la soglia dei 65 anni. Rifiutare la qualifica di «anziano», rinunciando a sconti o tariffe speciali e proseguendo con uno stile di vita da «tardo adulto» pienamente attivo e libero da incasellamenti. O accettare la targhetta d’argento, con annesse facilitazioni, ma col pericolo — attenzione! — di ritrovarsi in virtuale compagnia dei «veri» anziani.
Da Corriere.it