L’attività di cura e assistenza verso un proprio familiare rappresenta un vero e proprio “lavoro”, unico nel suo genere, nell’ambito del quale ad attività di tipo pragmatico-organizzativo (supporto nelle mansioni della quotidianità, vigilanza, accompagnamento, adempimento di pratiche burocratiche…) e sanitario (gestione dei rapporti con i medici e delle terapie) si intrecciano emozioni contrastanti, spesso complicate da un senso di inadeguatezza. Essere caregiver impatta inevitabilmente su tutte le dimensioni della vita, dalla salute psico-fisica agli affetti familiari, dalle relazioni sociali al lavoro e al tempo libero.
Identikit del caregiver familiare
Secondo i dati pubblicati nel 2018 dall’ISTAT, sono oltre 7 milioni (pari a circa il 15% del- la popolazione) gli italiani impegnati nel caregiving informale, a favore cioè di propri familiari. La maggior parte ha più di 50 anni, uno su cinque più di 60. Per circa la metà di loro il tempo settimanale dedicato all’attività di assistenza risulta tra le 10 e le 20 ore, un quarto è impegnato per più di 20 ore. Sono soprattutto donne, del resto l’associazione del ruolo di caregiver al genere femminile affonda le proprie radici in un retaggio culturale e in un contesto sociale fortemente connotato nel nostro Paese che identifica nell’essere “donna” un’inclinazione naturale alla cura e un’abnegazione per le necessità dei propri cari, soprattutto di quelli più fragili e bisognosi. È anche vero che la situazione sta cambiando e che sono sempre più numerosi gli uomini che affiancano le proprie partner, condividendo il peso di questo ruolo o che ne sono protagonisti. Tant’è che negli ultimi anni sono stati fatti diversi studi volti a indagare le differenze di genere in questo ambito, connotate nell’uomo dall’attitudine alla pragmaticità e alla risoluzione dei problemi in modo lineare e sequenziale, mentre donne da una partecipazione emotiva, totalizzante con tendenza a caricare tutto sulle proprie spalle e con scarsa propensionealla delega. Per la donna il lavoro di cura va al di là della semplice esecuzione di mansioni, focalizzandosi sui bisogni emotivi del proprio caro, sulla relazione e sullo scambio comunicativo. Forse, anche per questi motivi, la donna risente in genere maggiormente dell’impegno assunto, risultando più esposta, rispetto all’uomo, al rischio di sviluppare disturbi d’ansia o depressivi.
Invecchia la popolazione, invecchiano i caregiver
Nel tempo il ruolo del caregiver familiare è divenuto più complesso, complice il progressivo invecchiamento della popolazione che porta ad assistere anziani “più vecchi” e dunque più fragili, maggiormente vulnerabili sul piano biologico (multicronicità, limitazioni funzionali) e psico-emotivo, spesso anche socio-economico. Una popolazione anziana sempre più “vecchia” e sempre più colpita da deficit cognitivi: la stima attuale italiana si attesta su oltre 1.200 mila persone affette da demenza. E, nel frattempo, invecchiano anche i caregiver. Un’indagine del 2016 condotta dal Censis e dall’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer (AIMA), volta a esplorare i costi sociali e familiari della malattia di Alzheimer, ha evidenziato questo fenomeno: l’età media attuale dei malati di Alzheimer è di 78.8 anni contro i 73.6 nel 1999, quella dei caregiver è di 59.2 anni contro i 53.3 nel 1999. I caregiver di familiari anziani compiono quotidianamente acrobazie organizzative, compressi tra l’assistenza alla generazione senior e l’accudimento dei figli, prima, e dei nipoti, dopo.
Il “peso” dell’assistenza
Il ruolo di caregiver rappresenta un compito ad alto “costo”, la cui entità dipende da moltissimi fattori, come il numero di ore dedicate alla cura, la malattia o il tipo di invalidità da cui è affetto il proprio familiare, il grado di parentela e il clima emotivo, la possibilità di poter contare su una rete di supporto, le condizioni di salute e la capacità relazionale dello stesso caregiver. Tutto ciò costituisce un carico pesante (il cosiddetto burden), gravato dalla difficoltà di conciliarlo con emozioni come il senso di inadeguatezza o di colpa, la solitudine, la rabbia. Negli ultimi anni si è registrata una crescente sensibilità su questo tema e sono state condotte numerose ricerche (alcune realizzate anche dalla Fondazione Onda) con l’obiettivo di misurare il costo dell’assistenza in termini non solo economici, ma soprattutto umani (salute psico-fisica, qualità della vita, relazioni familiari e sociali, attività lavorativa). È maturata così la consapevolezza che, se da un lato il caregiver presta le proprie cure e la propria assistenza a un familiare che ne ha bisogno, dall’altro, proprio per il ruolo cruciale che svolge quotidianamente, è egli stesso un individuo fragile, che necessita di attenzioni speciali.
Impatto sulla qualità e sulla quantità della vita
Il “peso” dell’assistenza impatta innanzitutto sulla salute del caregiver, sia direttamente (stanchezza, disturbi del sonno, ansia, depressione, ipertensione arteriosa, disturbi gastrointestinali…) sia indirettamente attraverso l’adozione di stili di vita non salutari (alimentazione scorretta, abuso di alcol, tabagismo, sedentarietà…) e l’inclinazione ad anteporre le esigenze del familiare al proprio benessere (astensione dai controlli, rinvio delle visite mediche, discontinuità nelle cure…). Numerosi studi hanno indagato questi aspetti. Tra i più recenti, si richiama l’Internazionale Embracing Carers del 2017, condotto coinvolgendo oltre 3.500 caregiver tra i 18 e i 75 anni in sette paesi, tra cui l’Italia. Nel sottocampione italiano (501 caregiver) sono emersi questi risultati: il 59% dichiara che la propri salute fisica ha risentito negativamente per il ruolo svolto, il 33% afferma di anteporre la salute della persona di cui si occupa alla propria, il 69% lamenta disturbi del sonno, il 74% vive in uno stato di ansia. A ciò si aggiunge sofferenza emotiva e la mancanza di tempo per sé che spesso porta a sacrificare interessi e tempo libero, oltre a contrarre (talvolta a sospendere) l’attività lavorativa con progressivo ritiro sociale e isolamento. I caregiver possono sperimentare la sensazione di vedersi sfuggire di mano la propria esistenza, che avevano immaginato in maniera del tutto diversa. L’impatto emotivo di tristezza o rabbia li può portare a desiderare di fuggire dalla situazione che stanno vivendo, pur nella consapevolezza che, non essendo un vincolo lavorativo ma emotivo, l’impatto dell’effettivo allontanamento dal proprio compito di cura provocherebbe sensi di colpa tali da non poter reggere il distacco dal proprio caro. La ripercussione di questi aspetti di ineluttabilità del proprio compito può portare i caregiver a sperimentare sensi di colpa e di inadeguatezza in precedenza menzionati.
L’entità del peso dell’assistenza, e di conseguenza l’impatto sulla vita del caregiver, dipende, come già spiegato, da molte variabili, ma il caregiving a favore di familiari affetti da gravi malattie che incidono pesantemente sul funzionamento individuale e sociale, come patologie psichiche e demenze, sono associate a un burden ben più elevato, complice anche lo stigma che ancora le avvolge. Uno studio di Elizabeth Blackburn, premio Nobel per la Medicina nel 2009, ha calcolato che i caregiver sottoposti allo stress di curare familiari gravi hanno un’aspettativa di vita ridotta dai 9 ai 17 anni.
Sindrome del burnout: dallo stress alla patologia
Il burnout è uno stato di esaurimento emotivo, mentale e fisico causato da stress eccessivo e prolungato, legato a un sovraccarico di lavoro e problemi familiari. Il caregiver in burnout si sente sotto pressione, avverte un forte disagio psicologico, caratterizzato da ansia e malessere, e percepisce senso di fastidio nei confronti della persona assistita. Il burden, rappresentato dal carico oggettivo (cambiamento di orari e abitudini, mancanza di tempo libero, limitazione nelle relazioni sociali, mancanza di tempo per gli altri familiari, ripercussioni lavorative) e soggettivo (compassione, risentimento, sensi di colpa e inadeguatezza, sensazione di essere imprigionati, frustrazione, senso della perdita), esita in burnout, soprattutto laddove concorrano molteplici fattori di rischio, ben identificati dalla letteratura in materia: sesso femminile, basso livello di scolarità, coabitazione con l'assistito, elevato numero di ore di assistenza, depressione, isolamento sociale, problemi economici, caregiving “forzato”, scarsa conoscenza della malattia, relazione antecedente conflittuale.
La resilienza
Il termine è stato mutuato dalla fisica in cui esprime la capacità di un materiale di assorbire energia, se sottoposto a deformazione elastica, e di tornare alla forma d’origine. In psicologia esprime l’adattabilità, la capacità di riuscire ad affrontare eventi stressanti. Per poter sviluppare la resilienza, è fondamentale adottare strategie “protettive” da ricercare in se stessi e nell’ambiente in cui si vive.
Eccole in sintesi:
1. prendersi cura di sé e della propria salute;
2. non isolarsi;
3. fare in modo che la malattia del familiare non sia costantemente al centro della propria attenzione;
4. apprezzarsi per il compito impegnativo che si sta svolgendo;
5. trovare spazi e momenti di svago;
6. vigilare sulla comparsa di sintomi di depressione;
7. chiedere aiuto e delegare;
8. informarsi sulla/e patologia/e e sulle terapie;
9. difendere i propri diritti come persona e come cittadino;
10. condividere.
Le associazioni di volontariato svolgono un prezioso ruolo di supporto, offrendo, al di là dei servizi di assistenza, anche spazi di confronto e dialogo per poter esplicitare le proprie frustrazioni e preoccupazioni.
Quali tutele?
I caregiver familiari sono l’ossatura del sistema assistenziale. Il loro valore non è solo umano, ma anche sociale ed economico; meritano pertanto la giusta considerazione, valorizzazione e
tutela. L’Italia, ad oggi, è uno dei pochi paesi europei in cui non è stata ancora riconosciuta e tutelata da un punto di vista previdenziale, sanitario e assicurativo la figura del caregiver familiare. In attesa dell’approvazione di una legge nazionale, l’emendamento alla legge di Bilancio 2018 è stato un primo importante passo. L’emendamento infatti ha istituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali il “Fondo per il sostegno del titolo di cura e di assistenza del caregiver familiare”, per fornire copertura finanziaria a interventi legislativi finalizzati al riconoscimento del valore sociale ed economico dell’attività di cura non professionale del caregiver familiare. La dotazione del fondo è stata, peraltro, aumentata con la legge di Bilancio 2019 (da 20 a 25 milioni/anno per tre anni), ma, di fatto, le risorse non sono disponibili perché manca una legge nazionale. Ad oggi, si attende l’esito dell’iter parlamentare del testo unificato in cui sono confluiti sette disegni di legge “Disposizioni per il riconoscimento e il sostegno del caregiver familiare”, definito come la persona che gratuitamente assiste e si prende cura in modo continuativo di un familiare non autosufficiente che abbia una disabilità grave certificata (legge 104/92, art. 3 comma 3) o sia titolare di indennità di accompagnamento (invalidità 100%) ai sensi della legge 18/80. Tra i diversi strumenti di tutela sono previsti: contribuzione figurativa, pensione anticipata, detrazioni fiscali per le spese di cura, rimodulazione dell'orario di lavoro, interventi di sollievo per caregiver (operatori socio-sanitari/assistenziali, sostituzioni temporanee…), supporto psicologico per prevenire il rischio di malattie da stress psico-fisico e tessera di riconoscimento per avere priorità nell’accesso a prestazioni e nel disbrigo di pratiche amministrative. In attesa della Legge nazionale, molte regioni si sono attivate, dotandosi di una propria normativa volta a riconoscere l’attività di cura e assistenza a favore di familiari non autosufficienti.
Ruolo della formazione e dell’informazione
Spesso il caregiver assume questo ruolo per necessità, senza avere ricevuto un’adeguata informazione sulle patologie di cui è affetto il proprio familiare e formazione nella gestione delle situazioni di non autosufficienza. Per questo, nella costruzione dei piani terapeutici, si dovrebbe prevedere il coinvolgimento e l’addestramento dei caregiver in modo che possano acquisire le conoscenze necessarie per gestire i bisogni fondamentali richiesti dalle varie tipologie di pazienti. L’impreparazione del caregiver non solo è controproducente per il paziente e la sua famiglia, ma acuisce il carico di stress e di burden soggettivo. In letteratura diversi studi hanno evidenziato come caregiver familiari poco preparati garantiscano peggior qualità delle cure e risultino essere maggiormente predisposti alla sindrome del burnout.
Un aiuto dalla tecnologia
Recenti sviluppi nell’ambito dell’innovazione per la salute hanno aperto nuovi orizzonti nell’assistenza a persone non più autosufficienti e con bisogni di cura a lungo termine. Tra questi, i servizi di supporto basati sulle tecnologie informative e comunicative possono avere un ruolo rilevante nel facilitare l’attività di cura dei caregiver familiari. In particolare, i dispositivi mobili, grazie alla loro ampia diffusione e alla semplicità di utilizzo, sembrano assolvere al meglio questa funzione. Tramite questi strumenti, è possibile accedere a diverse applicazioni e siti web utili nel rispondere a bisogni legati all’attività di cura. Esistono, ad esempio, applicazioni che aiutano la pianificazione delle attività assistenziali, l’impostazione della terapia farmacologica, fungono da promemoria, permettono di accedere rapidamente a contenuti formativi e informativi sulla salute e sulle diverse patologie, e di comunicare a distanza con altri familiari coinvolti o con i medici.
Dall’assistenza al domicilio al trasferimento in RSA
Quando la famiglia non è più in grado di far fronte all’impegno richiesto per la cura dell’anziano non autosufficiente, l’istituzionalizzazione in RSA rimane l’unica forma di assistenza possibile. Il trasferimento in Residenza rappresenta solo apparentemente un alleggerimento del burden: diversi studi hanno dimostrato come la prima fase sia accompagnata da depressione e stress, aggravati frequentemente da un forte senso di colpa e di fallimento. Depressione e stress possono non diminuire con il tempo, trasformandosi in condizioni croniche. La relazione stabilita con la struttura accogliente e con il personale della stessa può mitigare questi vissuti e il livello di stress percepito, oppure accentuarli. Fortunatamente, molte RSA hanno compreso l’importanza di coinvolgere attivamente i familiari nel progetto di cura, a partire dalla fase di inserimento.