ROMA - L’Alzheimer, una realtà con cui 600 mila italiani fanno i conti. E nel Paese più longevo d’Europa, con il 22 per cento della popolazione ultrasessantenne, i malati di Alzheimer sono destinati ad aumentare. Oltre 11 miliardi di euro destinati all’assistenza, di cui il 73 per cento a carico delle famiglie, per un costo medio annuo per paziente pari a circa 70 euro, sommando i costi di cui si fanno carico il Servizio sanitario nazionale e le famiglie. Lo rileva la ricerca Censis – Aima (Associazione italiana malattia di Alzheimer), con il contributo di Lilly, presentata a Roma alla Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini”.
Sono alti i numeri dell’Alzheimer: secondo l’Adi – Alzheimer’s Disease International, nel 2015 sono oltre 9 milioni di casi di demenza all’anno, un nuovo caso ogni 3 secondi. “Dopo le due ricerche fatte, quella del 1999 e del 2006, fotografare la situazione delle famiglie ci è apparsa una necessità per far tornare il tema della demenza senile nell’agenda politica”, dice Patrizia Spadin, Presidente di Aima, sottolineando come negli ultimi anni solo pochissime regioni abbiano adeguato i propri piani sanitari per i malati di Alzheimer.
Il profilo del malato e del caregiver. L’età media dei malati con Alzheimer si è alzata. È di 78,8 anni nel 2015, (nel 2006 era di 77,8 e nel 1999 di 73,6). Il 72 per cento dei malati sono pensionati, (con un aumento di 22 punti rispetto al 2006). Quello dell’Alzheimer è un mondo al femminile: la patologia è più diffusa tra le donne (65,9 per cento, mente il 34,1 per cento uomini).
E in un Paese così longevo, invecchia il malato ma anche chi se ne occupa. Ecco allora che il caregiver – chi si prende cura del malato – ha una media di 59 anni, (nel 2006 aveva 54 anni e nel 199, 53 anni). Se le ore in media al giorno dedicate al malato sono oltre 4, e 10 di sorveglianza, il 40 per cento dei caregiver, pur essendo in età lavorativa, non lavora. E chi ha un impiego spesso è costretto a richiedere il part time, (il 26 per cento delle donne lo fa). Un impegno costante, che spesso incide sulla salute. E a farne le spese sono soprattutto le donne: stanchezza, poco sonno, depressione. A formulare la diagnosi di Alzheimer è in primis lo specialista pubblico (63,5 per cento), in particolare un neurologo o un geriatra, mentre chi ha ricevuto la diagnosi da una Uva – Unità di valutazione Alzheimer- è stato il 20,6 per cento (nel 2006 er il 40 per cento).
I pazienti affetti da Alzheimer sono sempre più relegati all’ambito di cura delle famiglie – il 38 per cento dei figli che si occupano dei propri genitori, lo fa con l’aiuto di una badante -. “Questo dà l’idea di un Paese che non è inserito in un grande modello di cura e di intervento, perché siamo un Paese vecchio, orientato a guardare indietro. Non sono più adeguati gli interventi di sinergia tra pubblico e privato, tra volontariato e famiglie. È un panorama di sinergie in diminuzione”, dice Giuseppe de Rita, Presidente del Censis. Basti pensare i pazienti seguiti da una Uva o da un centro pubblico, rispetto al 2006, sono diminuiti di 10 punti (56 per cento). Dati in controtendenza rispetto a quanto emerso nel 2006, quando veniva evidenziato nell’assistenza medica ai malati di Alzheimer l’importante ruolo delle Unità di Valutazione Alzheimer. Il ricorso a strutture riabilitative e assistenziali è sceso dal 20 al 16, quello all’assistenza domiciliare integrata dal 18 all’11. Cresce invece la realtà dell’assistenza informale privata e allora appare fondamentale il ricorso alle badanti.
Se la consapevolezza della complessità della malattia è aumentata, il salto di qualità sotto il profilo operativo non è ancora stato fatto. “Temiamo quello che avevamo definito come effetto perverso dell’intervento delle famiglie e delle badanti nella cura dei malati di Alzheimer, quindi la deresponsabilizzazione dell’assistenza pubblica –sostiene Ketty Vaccaro, Responsabile dell’Area Welfare e Salute del Censis, – Serve una rete di servizi pubblici subito”. Altro tema centrale è quello della disponibilità economica per sostenere le cure.
“Cosa succederà in una società che deve far fronte a difficoltà del sistema previdenziale?”, chiede la Vaccaro. Ci sarebbe il Piano nazionale Demenze, pubblicato lo scorso gennaio, che dovrebbe essere tradotto in legge, come ricorda Teresa Di Fiandra, Direzione Generale della prevenzione sanitaria del Ministero della Salute. “Stiamo verificando il piano operativo di ciascuna regione e lavorando nelle aree di criticità. Speriamo di definire i centri dove viene fatta la prima diagnosi del paziente e seguito nella cura, con una mappatura in costante aggiornamento, per sensibilizzare le regioni meno avanti sul tema”.